Alfie Kohn – La Fine della Competizione – pag,218…223 –  Baldini & Castoldi  1999
(La pubblicazione di questro stralcio è stata cortesemente autorizzata dall’autore.)

 AGGRESSIVITÀ  

Qual è la relazione tra competizione e aggressività?
A un certo livello la questione ha poco senso, dal momento che in effetti abbiamo a che fare con due distinti fenomeni passibili di essere messi in rapporto: la competizione è una forma di aggressività.
Nel  paragrafo precedente ho cercato di accertare cosa significhi battere re qualcuno. La situazione implica per sua stessa natura una lotta o (a seconda del modo in cui il termine viene impiegato) un 'iniziativa aggressiva. Perciò la Horney ha potuto scrivere: «L'ostilità è intrinseca a qualsiasi intensa competizione, dal momento che la vittoria di uno dei contendenti implica la sconfitta dell'altro»
Se è lecito stabilire una connessione, dunque, questa esiste solo tra il tentativo di sconfiggere qualcuno e il tentativo di nuocergli più di quanto sia necessario per ottenere la vittoria. Il punto ti equilibrio tra questi due comportamenti risiederebbe verosimilmente nei sentimenti di ostilità che invariabilmente accompagnano in qualche maniera la competizione.
Così scrive Morton Deutsh:
In una relazione competitiva, un individuo è predisposto a osserva re l'altro in termini negativi, ad avere un atteggiamento diffidente,  ostile e di sfruttamento, e un atteggiamento psicologico di chiusura, a  essere aggressivo e sulla difensiva, a procacciare vantaggi e supremazia per sé e svantaggi e inferiorità per l'altro, a vedere l'altro come opposto a sé e fondamentalmente diverso e così via. Un individuo può anche aspettarsi che l'altro abbia questa stessa tendenza.
Senza dubbio, l'ostilità è in pratica indistinguibile dalla competizione intenzionale, così che un individuo che presenta questa tendenza andrà probabilmente alla ricerca di occasioni competitive. A questa stregua, l'atto del competere può essere una conseguenza dell'ostilità. Ma i sociologi si sono occupati più della proposizione  inversa, ossia il problema di stabilire se la competizione induca la gente a sentirsi più ostile e, in ultima analisi, a comportarsi in modo più aggressivo.
Una volta si ipotizzava che la partecipazione o l'esposizione controllata  agli sport competitivi o a un altro comportamento competitivo potesse consentire di scaricare il potenziale aggressivo di certe persone. Questa divenne nota come la teoria della «catarsi»,sulla scorta del principio aristotelico in base al quale chi assisteva a una tragedia aveva la possibilità di purificarsi dai sentimenti negativi. Freud e l'etologo Konrad Lorenz sono stati due dei principali fautori di questo punto di vista, e non è una coincidenza che entrambi abbiano ritenuto l'aggressività innata piuttosto che acquisita, e spontanea piuttosto che reattiva: abbiamo bisogno di sfogare le nostre pulsioni aggressive, ed è meglio farlo in situazioni in cui se  ne possono limitare i danni, come nella pratica sportiva. Si affermava  pertanto che la soddisfazione sostitutiva della competizione potesse ridurre l'aggressività.
Sono poche le convinzioni così largamente condivise dalla maggioranza e smentite in misura tanto netta dai fatti . La teoria della catarsi attualmente non ha alcun fondamento, in particolare nei riguardi della questione dello sport. Anche Lorenz affermò, in un’'intervista del 1974, di aver sviluppato «forti dubbi riguardo al fatto che l'osservazione di comportamenti aggressivi, anche nel caso  delle attività sportive, possa avere un qualsiasi effetto catartico».E il ben noto psicoanalista Bruno Bettelheim riconobbe che: «gli sport competitivi [.. .] suscitano sentimenti competitivi e aggressivi a livelli esplosivi».

 Guardare gli altri comportarsi in modo aggressivo non ci aiuta a scaricare la nostra aggressività. Quello che sembra accadere è  che viene in tal modo fornito un evidente modello di comportamento: impariamo a essere aggressivi. Le nostre riserve nei con fronti dell'aggressività diminuiscono. Quale che sia la spiegazione escogitata per rendere ragione di questo fenomeno, tutti gli studi effettuati hanno mancato di evidenziare qualsiasi effetto catartico
• Si è scoperto che gli atleti diventavano più aggressivi con il  procedere della stagione, come indicarono le misurazioni ricavate dai test sulla personalità. Un altro studio ha individuato lo steso fenomeno nei giocatori di football americano delle scuole superiori.
• Alcuni bambini di terza elementare che avevano subito frustrazioni da parte dei ricercatori non diventarono in alcun modo meno aggressivi allorché, in seguito, si impegnarono in un gioco  aggressivo. (Invece, quei bambini cui era stato spiegato il comportamento frustrante divennero molto meno aggressivi.)
• Le probabilità che i bambini tra i cinque e i dieci anni dessero spintoni o colpissero i compagni erano maggiori se avevano visto un film sul pugilato.
• Uno studio di cultura comparata ha rivelato che «dove troviamo un comportamento bellicoso scopriamo in genere degli sport combattivi, e dove la guerra è relativamente rara gli sport combattivi tendono a essere assenti. Ciò contraddice l'ipotesi che  gli sport combattivi siano alternativi alla guerra in quanto canali di sfogo della tensione aggressiva accumulata». Se la teoria della catarsi fosse vera, gli sport e la guerra sarebbero in relazione inversamente proporzionale nelle varie culture; in realtà, la loro relazione è direttamente proporzionale.
Quei sociologi che hanno condotto direttamente la ricerca sulla catarsi sono giunti ad analoghe conclusioni. «Un numero enorme di  studi sull'aggressività nei bambini ha dimostrato che i tentativi di ridurla mediante l'uso di una terapia basata sul ricorso a un gioco aggressivo e vigoroso ottengono l'effetto contrario. [...]
«La partecipazione agli sport può incrementare le tendenze aggressive», afferma uno di questi.«La pratica degli sport aggressivi oppure l'assistere a sport  aggressivi [...]conducono in genere a far aumentare piuttosto che diminuire l'aggressività», dice un altro «La partecipazione a sport competitivi, aggressivi […]può essere considerata nel modo più corretto come un allenamento alla disinibizione che in ultima analisi promuove reazioni violente», afferma un terzo. E stando anche a un'altra fonte: «il bilancio dei dati […] è che il coinvolgimento  negli sport può accrescere lo stimolo, produce casi di comportamento aggressivo che vengono ricompensati, e crea un contesto nel quale l'emulazione di tali comportamenti viene vista con indulgenza ».
Di fronte a simili prove, i fautori della competizione non possono  più continuare a ricorrere alla catarsi per giustificare l'aggressività dello sport. La loro ultima risorsa è, come al solito, il mito della «natura umana». Michael Novak, ad esempio, afferma che «l’animale umano è un animale guerriero» e che gli sport non fanno altro che «rappresentare il conflitto». Gli studi dimostrano come  la competizione agonistica non solo non è in grado di ridurre l’aggressività, come la teoria della catarsi vorrebbe sostenere, ma che in realtà la incoraggia. Ciò non ci sorprende affatto, dal momento che lo sport rappresenta una sorta di «stato di guerra» circoscritto, qualcosa sottolineato non solo da critici quali George Orwell, che lo chiamava «la guerra senza spargimento di sangue»,  ma anche da alcuni generali: fu Wellington a dire che la battaglia di Waterloo era stata «vinta sui campi di gioco di Harrow e di Eaton». Fu Douglas MacArthur a dire: «Nel campo della contesa amichevole è stato piantato il seme che, in altri campi e in altri tempi, darà il frutto della vittoria». E fu Eisenhower a dire che la vera missione degli sport americani è quella di preparare i giovani alla guerra». Il punto non è affermare che tutti gli atleti correranno ad arruolarsi, ma che la competizione agonistica innesca  e incoraggia un'aggressività di tipo bellico.

Esistono molte spiegazioni empiriche e sperimentali della relazione tra la violenza e lo sport, ma probabilmente l'indagine più famosa è costituita dalla serie di studi condotti tra il 1949 e 1954 da. Muzafer Sherif e dai suoi colleghi. Nel cosiddetto «esperimento di  Robbers' Cave» (dal nome della zona dell'Oklahoma in cui si svolse), i ricercatori selezionarono un gruppo di ragazzi normali tra gli undici e i dodici anni che si trovavano in un campo di boy-scout e li  divisero in  due squadre. Queste squadre, i Rattlers e gli Eagles, vissero per tre settimane in capanne separate e si sfidarono in giochi competitivi come il baseball, il football americano e il tiro alla fune  con assegnazione di premi alla squadra vincente. L'ipotesi era che le  situazioni in cui un gruppo poteva riuscire vincitore solo a spese dell’altro  (ad esempio la competizione) fossero suscettibili di incoraggiare un’ostilità  generalizzata e comportamenti aggressivi. I ragazzi cominciarono  a prendersi in giro e a insultarsi a vicenda, in certi casi rivolgendosi contro buoni amici che ora si trovavano a far parte della squadra avversaria. E importante rendersi conto che non esistevano  differenze tra i componenti delle due squadre: erano omogenei sotto tutti i punti di vista. Solo la realtà della competizione strutturale può spiegare questa ostilità.
La pratica di dividere i bambini in due squadre per una serie di incontri competitivi è ancora diffusa nei campi estivi. Spesso  queste squadre sono identificate da colori diversi, e la faccenda è nota come «guerra dei colori», È uno spettacolo atroce, che alimenta umiliazione e rabbia, di cui sono stato testimone per vari anni come coordinatore di campo. Anche i bambini molto piccoli capiscono  che la sola cosa a contare nel corso di questa «guerra» è la situazione in cui si trova la propria squadra. Tutto deve essere  sacrificato per  il bene dei Blu o dei Bianchi, e si stipulano fervidi patti, di  lealtà  non appena vengono annunciate le arbitrarie assegnazioni a una o all'altra squadra. Coloro che fino a quel momento erano amici e ora si trovano dall'altra parte, vengono trattati con freddezza che spesso rasenta la cattiveria. Nel campo in cui mi trovai  a operare, la competizione si estendeva al di la degli sport: gli striscioni  di incoraggiamento e la partecipazione a una specie di quiz garantivano che anche i più giovani, non impegnati agonisticamente, potessero dispiegare le loro capacità competitive. (Invero constatiamo regolarmente che l'ostilità trabocca anche nelle partite a scacchi, nelle riunioni scolastiche e in qualsiasi altro genere di gara ricreativa si voglia menzionare. Gli atleti non hanno 1'esclusiva dell'aggressività.) .
La competizione non incoraggia 1'aggressività solo nel partecipanti. Negli sport la violenza dei tifosi è una presenza assidua, dagli  studenti della scuola superiore che prendono a sassate l’autobus della squadra rivale alla morte di trecento tifosi di calcio nella  rissa scoppiata in Peru nel 1964. Nel 1971, 66 persone morirono in modo simile a Glasgow; nel 1985 , a Bruxelles, i morti furono 38. Saccheggi e tafferugli si verificano sistematicamente nelle città degli Stati Uniti dopo la vittoria della squadra locale  nel  Super Bowl o nelle World Series. Dopo ognuno di questi incidenti, i sapientoni di turno e i leader politici si  spremono le meningi e cercano di immaginare cosa  avrà mai , provocato un comportamento così «insensato». La rissa scoppiata a Bruxelles, innescata  da alcuni giovani di Liverpool, suscitò  ipotesi che andavano  dall'alcol alle peculiarità caratteriali degli inglesi. La .sola cosa  che non venne presa in esame fu l'effetto della competizione  in quanto tale. In ogni caso, la frequenza di un  comportamento del genere da parte dei tifosi smentisce la teoria  della catarsi. «Esiste un tale numero di casi di spettatori che diventano violenti in seguito a un gioco emotivamente acceso», afferma Terry Orlick, «che c'è da stupirsi pensando  a come possa persistere la convinzione che gli spettatori plachino  le loro tendenze aggressive  guardando la partita. Evidentemente qualcuno si è dimenticato di spiegare a questi tifosi che assistere a manifestazioni sportive altamente competitive dovrebbe attenuare le loro tendenze aggressive» .

Sarebbe un errore circoscrivere agli sport il dibattito sull'aggressività indotta dalla competizione. Si ritiene che i giochi, dopotutto. abbiano meno importanza del resto della vita; vengono proposti come qualcosa di allegro e divertente. In altri ambiti, dove la competizione si fa tremendamente seria, potranno esserci minori occasioni di violenza brutale ma almeno altrettanta ostilità.
Le riflessioni di Joseph Wax sull'educazione meritano di essere citate per esteso:
“C'è da interrogarsi sulle capacità intellettuali di un insegnante che non riesce a comprendere perché i bambini si aggrediscono nei corridoi, sul campo di gioco e in strada, quando in classe i maggiori elogi sono riservati a chi riesce a battere i compagni. In molte maniere più o meno sottili, gli insegnanti dimostrano agli alunni che quanto viene appreso conta meno del trionfo da cogliere sui compagni di classe. Questa non è forse un'aggressione? [... ]: La sconfitta subita in aula è solo la prima goccia di una serie di ondate di aperta ostilità. È un fenomeno che si autoalimenta. Viene rinforzato dal biasimo dei compagni, dalla disapprovazione dei genitori e dalla perdita di autostima. Se la classe è il modello, e se in classe si prende a modello la competizione, le aggressioni nei corridoi non dovrebbero sorprendere nessuno.

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