Competere o collaborare?
di Michele Loporcaro
Dinamica dei Gruppi e Sport,
Tesi discussa all'ISEF di L'Aquila - sede di Foggia -, a. a. 1996-97.
Quando si parla di prestazione spesso si deve "fare i conti" con termini quali competizione, collaborazione, agonismo, cooperazione, rivalità.
Sono parecchi gli studi con i quali si è cercato di dare delle indicazioni riguardo la prestazione, i diversi tipi di prestazione, i fattori che la influenzano.
Un'opinione molto diffusa è quella secondo cui la competizione è l'essenza della produttività (o prestazione). Inoltre, sembra ormai ovvio, soprattutto nel mondo occidentale contemporaneo, che per fare bene sia indispensabile fare meglio degli altri.
A dire il vero, in un passato molto remoto, c'è già stato qualcuno che ha sostenuto caparbiamente il principio secondo il quale non c'è vita secondo competizione, che la rivalità, la competizione e la guerra, sono presenti in ogni particella dell'intero universo... Si tratta di Eraclito di Efeso, un astruso quanto anormale filosofo presocratico. Per Eraclito "tutto accade secondo contesa" ed ancora "la guerra è la madre di tutte le cose".
Ma alcuni autori, tra i quali Alfie Kohn, invitano quantomeno alla riflessione: siamo sicuri che le nostre prestazioni aumentano quando cerchiamo di superare qualcuno o, nel caso di un gruppo, quando questo cerca di superare l'altro? Questi psicologi hanno voluto vedere da vicino i vantaggi presunti dello stile competitivo e, con incredibile regolarità, hanno scoperto che far dipendere il proprio successo dal fallimento altrui (infondo è questo che comporta la competitività), comporta un'impostazione che non regge. In pratica, sembra che una buona prestazione non richieda affatto un approccio di tipo competitivo, anzi spesso succede proprio il contrario. Sebbene questa asserzione metta in discussione alcune convinzione largamente diffuse, essa ha dalla propria parte decine di studi anche non recentissimi.
In un articolo apparso su "Psicologia contemporanea" del 1988, Alfie Kohn riporta i risultati di alcuni studi, a sostegno della sua tesi: meglio collaborare che competere. Negli anni '70, lo psicologo Robert Helmreich, dell'Università del Texas, ha studiato la relazione tra il successo ed alcuni tratti della personalità (atteggiamento verso il lavoro, competenza...) e la competitività. I tratti della personalità sono stati misurati mediante questionario, su un campione di 103 uomini di scienza. Il loro successo professionale, invece, era indicato dal numero di citazioni totalizzate da ciascuno negli articoli dei colleghi. Da questa indagine emerse che i più brillanti ottenevano punteggi alti nelle scale di dedizione al lavoro e di impegno intellettuale; ma i loro punteggi erano bassi per quanto riguardava la competitività.
Tutto ciò meravigliò molto Helmreich, il quale non immaginava che competizione e successo fossero in antitesi tra loro, tanto da fargli credere di aver commesso degli errori. A scanso di equivoci, egli ripeté la stessa ricerca su un campione di docenti universitari di psicologia: i risultati furono identici. In altri due lavori, uno con un gruppo di dirigenti di azienda (misurando il successo con lo stipendio annuo percepito), l'altro con un campione di oltre 1300 studenti (usando la media dei voti come indice di successo), emerse nuovamente una correlazione tra competitività e prestazione.
Come si può facilmente osservare, le conclusioni a cui giunge Helmreich, finiscono per mettere in dubbio l'idea (tanto in voga oggi) che per avere successo negli affari sia necessario un atteggiamento competitivo.
Ma Helmreich non si è fermato, e nel 1985 ha condotto altri tre studi che prendevano in esame un campione di alunni ed uno di piloti, ottenendo ulteriori risultati nella stessa direzione. Kohn fa notare che gli studi compiuti da Helmreich hanno un'importanza particolare, in quanto non si basano su un tratto della personalità spurio come la "motivazione al successo", ma isola la competitività dalle altre componenti di questa dimensione composta.
"Prima di questo" dice Kohn "i ricercatori presumevano semplicemente che tutte le componenti della motivazione al successo fossero associate ad un miglior rendimento: ora sappiamo che la competitività, in particolare non lo è". Inoltre, non è solo a livello individuale che la competizione "mina" il successo (come si potrebbe dedurre dalla considerazione degli studi fin qui esposti); sembra che anche una situazione di gruppo strutturata in modo da esigere la competizione tra i membri tenda a produrre gli stessi effetti, e questo, per qualsiasi tipo di attività
Già dal 1949, Morton Deutsch aveva creato durante un esperimento delle atmosfere di classe collaborative o competitive tramite variazioni molto sottili negli orientamenti che egli aveva dato a classi diverse.
Deutsch disse ad alcuni studenti di un college che, invece di seguire il normale corso di psicologia essi avrebbero preso parte a dei seminari per la discussione e l'analisi di casi individuali. Egli informò il gruppo "competitivo" che gli studenti sarebbero stati classificati in base alla loro analisi e discussione dei vari casi, e che il voto finale di ogni persona sarebbe stato ricavato dalla media dei suoi voti giornalieri. Ai membri dei gruppi collaborativi si disse, invece, che una buona parte dei loro voti del corso sarebbero dipesi dalla qualità della discussione mostrata dall'intero gruppo. Deutsch volle osservare le conseguenze di queste due impostazioni. Nella situazione di collaborazione, scopi individuali e obiettivi di gruppo si identificano, l'attenzione dei membri era rivolta non più a se stessi ma all'interazione con gli altri. La consapevolezza che ognuno poteva contribuire al risultato finale faceva progredire l'intero sistema in maniera compatta. Nel gruppo "competitivo" i membri erano portati a concentrare l'attenzione sulla propria prestazione visto che i loro voti erano funzione delle loro capacità individuali. Deutsch osservò come queste diverse impostazioni producevano rendimenti differenti. I gruppi "collaborativi" divennero dei veri gruppi; le loro discussioni produssero molte più idee, non solo, ma la loro qualità fu superiore. Al contrario nei gruppi "competitivi" non ci fu integrazione tra i membri e i risultati furono nettamente inferiori a causa del palese individualismo.
Quest'esperimento dimostra che gli individui sono in grado di cambiare il proprio comportamento e di passare da un interesse prevalente per l'"Io" ad un interesse prevalente per il "Noi", quando la loro ricompensa dipende da tale cambiamento; e che il rendimento del gruppo viene notevolmente modificato.
Kohn, nell'articolo di cui sopra, riferisce di un altro esperimento condotto dalla psicologa Teresa Amabile (Brandeis University) nel quale si chiedeva a bambine da 7 a 11 anni di comporre dei collages "buffi". Alcune di queste lavoravano in competizione, in vista di un premio per il collage più bello, altre no. I collages delle bambine che avevano lavorato in vista del premio, sottoposti al giudizio di 7 artisti, furono giudicati significativamente meno creativi di quelli prodotti dalle bambine che non erano in competizione. Il non-sense della competizione ed il grido d'accusa contro di essa, si rafforzano quando si prende in esame il campo dell'istruzione. Un immenso numero di ricerche -sostiene Kohn- dimostrano regolarmente che la competizione nella scuola produce effetti negativi sul rendimento. Questo avviene sia se si prendono in esame i profitti di compiti massimizzanti (che hanno di per sé una impostazione competitiva), sia, ovviamente, se si passa a considerare il profitto come risultato. In quest'ultimo caso i metodi competitivi fanno una figura ancora peggiore. I ragazzi, in pratica, non imparano meglio quando l'apprendimento viene trasformato in una gara. Kohn aggiunge: "Può ben darsi che l'insegnante preferisca fare della lezione un gioco a premi per tenere avvinta l'attenzione degli alunni, ma il vantaggio reale di questa strategia è di rendere l'insegnamento più facile, non più efficace: è un modo per aggirare i problemi pedagogici, piuttosto che risolverli". A tal proposito lo stesso Kohn riporta le parole di John Holt (filosofo dell'educazione) che, a nostro parere chiariscono molto bene "il prezzo che paghiamo per la competizione nella scuola": Noi distruggiamo... l'amore dell'apprendimento dei bambini, che è tanto forte quando sono piccoli, incoraggiandoli a lavorare in vista di ricompense meschine e disprezzabili -attestati, esposizioni di termini e disegni sulle pareti, dei voti in pagella, riconoscimenti e privilegi- in breve, per l'ignobile soddisfazione di sentirsi migliori di qualcun altro. Secondo Kohn, la gente preferisce la cooperazione alla competizione, quando le ha provate entrambe.
Nel 1984, David e Roger Johnson, professori di pedagogia all'Università del Minnesota, hanno dimostrato con sette ricerche sperimentali, che le esperienze di apprendimento di tipo cooperativo erano più gradite di quelle competitive (o individualistiche). Terry Olrick psicologo dello sport all'Università Ottawa, ha scoperto che la stessa cosa vale al di fuori dell'ambito scolastico. Dopo aver insegnato a dei bambini dei giochi non competitivi, ha potuto constatare che la totalità delle bambine ed i due terzi dei bambini preferivano questo tipo di ricreazione ai soliti giochi che esaltavano la competizione. Kohn sostiene che la competizione è spesso causa di ansia. Anche se "... in fondo è un gioco", la posta psicologica è molto alta; e la possibilità di uscire perdenti provoca uno stato emotivo che interferisce sul rendimento.
Insomma, sembra che proprio la competizione non promuova l'eccellenza; e questo per un motivo semplicissimo: cercare di far bene e cercare di battere gli altri, sono semplicemente due cose diverse. Questa diversità deriva dalla diversa motivazione che ognuno di questi due scopi ha alla base. Ciò spiega perché la competizione può ostacolare il successo. La teoria motivazionale, dunque, offre degli ottimi spunti per capire meglio il problema. Gli individui rendono al massimo nelle attività a loro particolarmente piacevoli, quelle attività per le quali hanno una motivazione intrinseca. Molti studi hanno dimostrato (afferma Kohn) che un fattore motivante esterno (motivazione estrinseca) come il denaro, i bei voti scolastici o le lusinghe della competizione, semplicemente non bastano a farci ottenere risultati altrettanto buoni, come quando siamo impegnati in un'attività che è di per sé gratificante. Come dire che un qualsiasi professionista è tale perché crede in ciò che fa', a prescindere da quello che guadagna. Da questi studi sulla motivazione intrinseca ed estrinseca, si evince che la voglia di fare meglio degli altri (la competizione, dunque) agisce esattamente come un qualunque altro fattore motivante estrinseco. In una situazione di competitività non è l'attività in sé ad essere gratificante, ma le sue conseguenza, la "...soddisfazione di sentirsi migliori di qualcun altro".
Ma allora, davvero è meglio collaborare? Davvero, la competizione è soltanto negativa? Da quanto detto, si direbbe che uno stile collaborativo è senz'altro da preferire, all'interno di un gruppo, rispetto ad uno stile competitivo. A noi, sostenitori di Eraclito, però, piace individuare la positività della competizione, ad un livello superiore: "una competizione al fine di collaborare". Nel fare questo, non facciamo altro che pensare che il progresso dell'umanità, sotto ogni aspetto, sia stato quasi sempre il frutto dello "scontro" (competizione) tra diverse ideologie, diversi approcci alle problematiche filosofiche, politiche, letterarie, psicologiche, giuridiche, scientifiche, sociali, diversi interessi, ecc. che via via si sono presentate all'uomo: individualità e conformismo, filosofia aristotelica e filosofia platonica, Eraclito e Parmenide, Romani e Greci, Orazi e Curazi, potere spirituale e potere temporale, cultura libresca e metodo sperimentale, Illuminismo e Romanticismo, Comunismo e Fascismo... La storia è fatta di contrasti, di competizioni, ed è in questi che noi individuiamo la fonte dei cambiamenti e del progresso.
Un altro esempio è dato dal titolo di questo capitolo ("Competere o collaborare?"): non è forse, questo titolo la sintesi di una competizione, sia pure teorica, tra la stessa competizione e la collaborazione? E non è questo stesso capitolo il risultato (positivo, a nostro avviso) di questo conflitto? Noi proporremmo una "competizione collaborativa", un continuo confronto che abbia come obiettivo il progredire insieme; un tipo di impostazione che tenga conto della possibilità reale di collaborare mediante competizione. Questa formula, che può sembrare paradossale, permette comunque una certa tensione emotiva (frutto dell'ansia della competizione) che se non è eccessiva risulta producente; in più consente di "sfruttare" i vantaggi della collaborazione, sia pure per mezzo della competizione.